La responsabilità del medico
Dopo l’articolo 590-quinquies del codice penale, è stato inserito, a mezzo dall’art. 6 della legge n. 24/2017, il seguente art. 590-sexies c.p. che introduce la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria:
«Art. 590-sexies (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario). Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.
Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
All’articolo 3 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, il comma 1 è abrogato.
Tuttavia, non è questo il luogo per affrontare la nuova norma penalistica ma, ci soffermeremo sull’effetto a cascata che l’art. 6 ha sulla responsabilità sanitaria.
La posizione del medico dipendente dalla struttura sanitaria (pubblica o privata) assume rilievo centrale ai fini della configurabilità della responsabilità stessa, attesa la peculiare fattispecie in cui esso si inserisce e che si presenta come trilaterale, coinvolgendo non già solamente il medico e il paziente bensì anche la struttura.
Non a caso la responsabilità del sanitario è da sempre al centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale proprio per la sua complessità in quanto determinata da numerosi variabili, prima tra tutte la natura della posizione contrattuale del sanitario. Pensiamo al concorso tra le due tipologie di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale), il nesso di causalità, la natura della responsabilità e regime applicabile, i rapporti con la disciplina penale, l’oggetto delle obbligazioni, obblighi di protezione di cui ci siamo occupati nei precedenti paragrafi, distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato, ecc.
Ne temi precedentemente trattati abbiamo visto come la dottrina e la giurisprudenza hanno avuto modo di scomporre tale fattispecie complessa in tre rapporti bilaterali, rispettivamente il rapporto tra medico e struttura, quello tra struttura e paziente e quello tra medico e paziente. Come abbiamo avuto modo di vedere, per i primi due rapporti si caratterizzano l’orientamento è ormai consolidato, per la presenza di un contratto tra i soggetti del rapporto giuridico, di tal che nessun dubbio può sollevarsi sulla natura contrattuale della relativa responsabilità[1], occorrerà quindi analizzare in dettaglio l’inquadramento operato dalla giurisprudenza di legittimità del rapporto tra medico e paziente nell’ambito dell’area della responsabilità contrattuale, poichè esso ha suscitato forti perplessità proprio nel momento in cui si è utilizzato l’argomento costituito dal contatto sociale tra medico e paziente.
L’art. 28 Cost., dice:
“i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.
“In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”
In passato, poco prima della storica sentenza della Cassazione civile n. 589/199, la giurisprudenza, scartando orientamenti marginali, era orientata sul presupposto della immedesimazione organica tra medico e struttura, propendeva per la natura contrattuale della responsabilità per i danni cagionati dal medico appunto in base all’Art. 28 Cost.., così rendendo i medici pubblici dipendenti responsabili come liberi professionisti. Vi era poi un secondo orientamento prevalente (quello tradizionale) che riconduceva alla responsabilità extracontrattuale la posizione del medico dipendente, in considerazione dell’assenza di un contratto tra medico e paziente che si fosse rivolto alla struttura.
L’orientamento facente capo all’art. 28 Cost., considerava inadeguata la connotazione aquiliana della responsabilità in esame, atteso che il rapporto non solo di protezione ma di cura in senso ampio che si instaura tra i soggetti in questione appare ictu oculi non assimilabile alla responsabilità del passante di cui all’art. 2043 c.c.; da qui l’assimilazione al rapporto contrattuale, da altri ritenuto una mera fictio, con omogeneizzazione del regime di responsabilità della struttura e del medico.
Tale divisione all’interno della giurisprudenza in ordine alla natura della
responsabilità del medico dipendente non conduceva alle logiche conseguenze in tema di regime normativo applicabile. Come abbiamo avuto modo di vedere, infatti il panorama giurisprudenziale, ha finito per creare un regime sui generis[1].
Tuttavia, tale sistema è tramontato[2] a partire della già citata sentenza Cass. n.589/1999 in cui gli ermellini, prendendo le distanze dalla tesi tradizionale che assimilava la responsabilità del medico dipendente a quella del passante tout court, hanno posto in rilievo che il contatto sociale che si instaura tra il medico e il paziente ad esso affidato conduce a lidi diversi dalla responsabilità aquiliana, ponendosi come fonte di obbligazioni ex art. 1173 c.c. la cui violazione determina una responsabilità che non può essere altro che contrattuale. Viene altresì ritenuta insoddisfacente anche la soluzione che fonda la responsabilità contrattuale sull’Art. 28 Cost., che “non statuisce sulla natura della responsabilita’, che e’ rimessa alle leggi ordinarie, ma solo sulla natura diretta di essa”, ovvero su un preteso ma inconfigurabile contratto tra struttura e medico a favore del paziente o con effetti positivi sullo stesso.[3]
La Corte ripudia l’impostazione aquiliana: l’equiparazione del medico al “passante” di cui all’art. 2043 c.c. costituisce una manifesta dissociazione tra sovrastruttura giuridica e realtà materiale, atteso che prima che il danno si verifichi esiste già un rapporto, un “contatto”, tra medico e paziente, il quale affida al primo la tutela della sua salute.
Ci siamo già ampiamente occupati nel precedente capitolo di quanto occorso agli albori del secolo XXI. Tuttavia preme ulteriormente precisare che alcune sentenze hanno nuovamente ribaltato gli orientamenti del 1999; tra queste due in particolare hanno fortemente scosso gli equilibri sino ad arrivare al decreto Balduzzi prima e la legge Gelli dopo[4].
La scelta del legislatore del 2007 nel rinvio all’art. 2043 c.c., come norma che disciplina la responsabilità del medico, e all’art. 1218 c.c. come norma che disciplina la responsabilità della struttura, è chiaramente un segnale della contemporaneità sociale e l’adattamento del diritto ad essa. Come abbiamo potuto constatare, i cambiamenti concernono, da un lato, l’esigenza di abbandonare quanto asserito delle Sezioni unite della Suprema Corte nel 2008 ovvero la prospettiva tradizionale che guarda al “fatto illecito” del medico come un “presupposto” necessario per poter affermare la responsabilità per inadempimento della struttura (ex artt. 1218/1228 c.c.); dall’altro lato vediamo l’effettiva esigenza di conferire rilievo alla colpa professionale, come criterio d’imputazione per la responsabilità del medico, in correlazione alla natura professionale dell’attività che detta le linee-guida alle quali la stessa deve confermarsi[5].
L’art. 7 della L. 24/2017, se interpretato in combinato con l’art.5 della stessa, assegna, nel giudizio condotto ex art. 2043 c.c., rilievo centrale alla colpa professionale, come criterio di imputazione per la responsabilità del medico. Sempre l’art.7, coordinato con gli artt. 8-15 della legge-Gelli, indica come (nell’accoglimento oggettivo di colpa) si sia spostato il baricentro della sua valutazione sulla consulenza tecnica.
Nello studio della responsabilità medica appare interessante come le nozioni di casualità e di colpa vengono utilizzate in materia civilistica secondo, però, la loro tradizione penalistica. Infatti, nelle sentenze civili di responsabilità sanitaria, penetra sempre più il concetto penalistico di causalità disciplinato dall’art 40 c.p. La ragione di ciò potrebbe essere il bisogno della “prova esatta”, scientifica (come se il concetto di colpa fosse matematico, chimico).
La colpa può essere definita come superamento del rischio socialmente consentito, accettato in determinate attività, che comportano pericoli, e che sono socialmente accettate: come necessarie (l’assistenza sanitaria), utili (l’attività aviatoria), comunque tollerate (gli sport pericolosi).[6]
Pertanto, continua il prof. S. Aleo, la colpa può essere definita in generale come la difformità del comportamento del soggetto rispetto a quello che (può essere definito doveroso in quanto) la maggior parte dei soggetti dello stesso tipo avrebbe tenuto, e quindi tiene, di fatto, in una situazione dello stesso tipo:
Il criterio c.d. dell’”uomo medio”, dell’”homo eissdemcondicionis et professionis”.
Nella colpa professionale, il criterio di definizione della colpa non è diverso, anzi: è più circoscritto il campione di riferimento ovvero i soggetti che svolgono una determinata attività nel medesimo ambito.
Il rapporto di causalità disciplinato dall’art 40 c.p dice che:
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.
Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
La responsabilità per omissione presuppone appunto la violazione di un obbligo di garanzia di cui il soggetto ne è titolare ovvero secondo il citato art. 40 c.p.. Il sanitario, infatti è chiamato a rispondere delle sue condotte colpose, per gli eventi dannosi che ne siano conseguenza.
Nella teoria tradizionale della responsabilità, la nozione di casualità è considerata preliminare di quelle di dolo e di colpa. Nell’analisi della condotta medica, è evidente come il giudizio di colpa sia logicamente preliminare a quello di causalità, ovvero quello di causalità sia posteriore è subordinato rispetto a quello di colpa: da potersi parlare, appunto di causalità della colpa: l’evento dannoso è (giudicato) conseguenza dalla condotta (giudicata) colposa del medico; l’evento dannoso può essere qualificato, giudicato, conseguenza della condotta del medico solo a partire del giudizio (valutativo, opinabile) di colpa dello stesso[7].
La casualità, cosi come la colpa, non sono fatti esistenti in natura da provare come avvenuti o non avvenuti ma criteri di argomentazioni, e di valutazione.
Ragion per cui, la materia della responsabilità sanitaria è particolarmente interessante, infatti viene continuamente stressata è sottoposta a continua verifica quindi, sempre opinabile e oggetto di necessarie verifiche, corroborazioni e persuasioni.
Il c.d. elemento psicologico nel reato, disciplinato dall’art. 43 c.p:
Il delitto:
è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;
è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Per la configurazione di “dolo”, bisogna provare che il soggetto che ha voluto o meno il verificarsi dell’evento dannoso come risultato e quindi fine del proprio comportamento. Ne deriva che è un evento di mera natura psichica.
Come abbiamo avuto modo di vedere, la colpa non è altro che un criterio di comparazione fra la condotta tenuta dal soggetto e la condotta che lo stesso avrebbe dovuto tenere. Appare evidente che, in un tale panorama giurisprudenziale, semplificato per ragioni di trattazione, il sottosistema creato dal diritto positivo pone enormi questioni di carattere sistematico alla dottrina e suscita non pochi problemi degli operatori (avvocati in primis) poiché era costituto in modo da attribuire un favor netto per la posizione del medico riducendo le possibilità dei pazienti di ottenere giustizia.
Questo capitolo è stato interamente estratto dall’ultima pubblicazione dell’avv. Gabriele Sturniolo.
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